Non è solo un grande piacere per me presentare Silvia Beccaria in occasione di questo catalogo personale, ma anche motivo di soddisfazione vedere confermate la mia prima intuizione sul suo lavoro quando, nel 2008, aprendo la prima e unica galleria di fiber art in Italia, la volli nella prima mostra collettiva con cui iniziavo una sorprendente esplorazione di questo mondo. Ma che cos’è la fiber art? Figlia delle avanguardie dadaiste e futuriste e dei loro materiali eterogenei ed eterodossi, è nell’ambito del Bauhaus che trova una sua prima definizione identitaria: il recupero di tecniche e materiali propri della tradizione artigianale viene rimesso in gioco nella severa disciplina di una grammatica visiva costruita, nel corso di tessitura tra il 1920 e il 1933, da grandi maestri del XX secolo come Joahnnes Itten, Paul Klee, Kandinskij e Moholoy-Nagy. Con loro, artiste come Otti Berger e Anni Albers determinarono una svolta decisiva nell’arazzeria moderna abbandonando la tradizione narrativa a favore di una composizione astratta e geometrica. E’ a questa matrice che occorre guardare per comprendere il percorso di Silvia Beccaria, percorso che si arricchisce anche del contributo che, a partire soprattutto dagli anni ’60, la Fiber art apporta nella ricerca sperimentale sui materiali “flessibili”, naturali o artificiali, comunque apparentabili alla categoria delle “fibre”. Abbinamenti e ricerche materiche caratterizzano quindi anche la ricerca di Silvia in combinazioni però sempre estremamente controllate dalla sua “grammatica”.
Lungi dal gettarsi in un legittimo quanto rischioso virtuosismo, Silvia sembra quasi sottrarvisi per far trapelare una bellezza costruita sulle regole classiche della euritmia e delle proporzioni e, nello stesso tempo, totalmente moderna nelle sue contaminazioni con alcuni degli orientamenti più interessanti del XX secolo, ovvero quell’approccio analitico e strutturale su cui Silvia ha ancora molto da dire a partire dal legame tra struttura – sviluppo –evoluzione dentro le infinite variazioni.
E’ infatti questo il filo rosso che attraversa la varietà della sua produzione. Basti vedere, nella produzione tessile, opere come Acini d’uva. In un legame rispettoso con la storia rivisita quella particolare versione sarda della tessitura chiamata, appunto, “pipiones”. Ma l’operazione da filologica si trasforma in scomposizione analitica delle relazioni tra materiali e ritmi, andando così a costruire una sorta di partitura musicale scritta con notazioni di sete e canape composte in contrappunti e fughe. Analoghi andamenti scritturali hanno opere come Ritagli di cultura e Scripturae dove una famigliare fascinazione per la parola la porta ad intrecciare strisce di giornali ridotte a tracce ormai illeggibili o lamelle di rame che si intersecano lucenti sui caldi bruni del lino e del cotone, come scritture ancora da decifrare.
Che questo approccio rigoroso e analitico sembra imporsi come sua sigla personale si evince anche dalla splendida serie delle gorgiere: spogliate non solo di ogni ornamento ma anche di ogni tessuto connettivo rivelano la nuda struttura trasformandosi così in micro-architetture, anche, da indossare. E’ presente quindi una sorta di spiazzamento quasi dadaista ma privo di intenti provocatori per restituire le cose alla limpida lettura della sua delicata e razionale visionarietà.
Gabriella Anedi de Simone